D: “Il Kamikaze cristiano” ha per protagonista un giornalista-fotografo sessantenne. Sei tu?

R: Hemingway diceva “Ogni romanzo è più o meno autobiografico”. E Pushkin: “Parla di quello che conosci”. Direi che Paolo Vida, personaggio chiave del mio libro, in alcune cose mi somiglia e in altre decisamente no. Lo scrittore costruisce i personaggi di una storia e poi li muove nel grande mare dell’oggettività. È il vero lato creativo di questo lavoro, ma anche quello più tormentoso.

D: In che senso?

R: È difficile mantenere il necessario distacco. Finisci coll’identificarti o col non amare le tue creature, secondo i casi. Come si fa ad essere completamente neutrali?

D: La trama del romanzo è molto originale: è la storia di un attentato a Kabul, il primo progettato da un cristiano che vuole farsi saltare in aria in una moschea. Come ti è venuta un’idea del genere?

R: Avevo già scritto un romanzo qualche anno fa, ma non ero soddisfatto, così è rimasto nel cassetto. Alla fine del 2001 e nei mesi seguenti ho subìto diversi attacchi frontali dalla vita. Un po’ è stato destino, un po’ miei errori, un po’ stupidità e crudeltà del prossimo. In quel periodo il mio livello di disperazione era decisamente alto.

D: Hai pensato al suicidio?

R: Chi non ci pensa almeno una volta nella vita? No, in realtà ho deciso di rischiare tutto nel punto allora più caldo del pianeta, cioè Kabul. Oggi sarei andato a Baghdad. Mi sono detto: va’, metti in gioco la tua esistenza. Se è destino che ti ammazzino, meglio che avvenga mentre fai il tuo lavoro. È quello che si chiama “cadere sul campo”, in fondo una bella morte per un giornalista e viaggiatore assiduo come me. Ma non ho ovviamente pensato ad alcun attentato.

D: L’idea del romanzo ti è venuta a Kabul?

R: No, dopo quasi un anno dal mio ritorno. Prima ho pubblicato diversi articoli sul dopoguerra nella capitale afghana. Ho scattato circa 5.000 foto in tre settimane, una media di 250 al giorno.

D: Com’era la situazione a Kabul nella primavera del 2002?

R: La guerra con i Talebani era finita da qualche mese. L’atmosfera restava tesa, ma non è successo nulla di drammatico. Dopo qualche settimana dalla mia partenza è scoppiata un’autobomba nella piazza Pashtunistan, dove andavo spesso a fare foto: 50 morti.

D: Quanto tempo hai impiegato per scrivere il tuo romanzo?

R: Circa un anno. Non molto, considerando che sono 450 pagine e che scrivo soltanto di notte, dalle 11 alle 2. Mi sono preso qualche settimana sabbatica a São Vicente (Capo Verde) e in Piemonte. Una ventina di giorni in tutto, chiuso in hotel a scrivere. Se lo facessi a tempo pieno, potrei produrre un romanzo all’anno, ma purtroppo devo fare altro per vivere, ovviamente sempre nell’ambito della scrittura e della fotografia.

D: Il protagonista del romanzo, Paolo Vida, è molto duro con l’Islam.

R: Lui è un uomo disperato, che vuole scomparire dalla faccia della terra. Più che l’Islam odia l’estremismo e il fanatismo armato. Ma non ama nemmeno la civiltà occidentale, che lo ha distrutto con la velocità e la tecnologia. È un uomo che odia il mondo.

D: Qual è stato il punto più difficile da scrivere?

R: Il finale. Avevo almeno tre possibilità e sono stato a lungo indeciso. Poi ho scelto quella che spero leggerete nel libro, forse la meno ovvia.

D: Hai paura di qualche reazione violenta da parte della comunità musulmana?

R: Il mio libro non è un saggio, ma un romanzo. Il protagonista a volte dice cose dure sull’Islam, ma non è sempre quello che penso io. E poi c’è una conclusione interessante… Spero soltanto che l’opera venga considerata globalmente e non per qualche singolo passaggio che potrebbe anche apparire eccessivo.


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